Se ne è andato a quasi 67 anni proprio all’indomani di tre magnifici concerti a Los Angeles. Il musicista era stato trovato in condizioni disperate nella sua casa di Malibu dopo un attacco cardiaco.Dopo l’esordio discografico segnato da Tom Petty and the Heartbreakers del 1976 (che conteneva già un brano di grande successo come American girl) e un secondo disco di transizione, Petty e gli Heartbreakers si imposero sulle scene internazionali con Damn the torpedoes del 1979, uno dei migliori album di american music del decennio, caratterizzato da un suono che diventerà un punto di riferimento per molti artisti negli anni a venire. Da quel momento, la figura di Petty divenne centrale nella scena rock internazionale.
In quegli anni le sue canzoni scalavano le classifiche raccontando storie di ribelli, sconfitti e derelitti in maniera romantica e mai retorica. Non a caso, quando uscì Hard promises, nel 1981, in molti paragonarono gli Heartbreakers alla E Street Band di Springsteen. Per tutti gli anni Ottanta, Petty mantenne uno standard qualitativo altissimo, confortato anche da ottimi successi commerciali. Dischi come Southern accents, Pack up the plantation: Live, Full moon fever (inciso senza la sua band) erano illuminati da una creatività misurata e irresistibile, rinnovata anche da collaborazioni illustri come quella con Jeff Lynne o con il suo idolo Bob Dylan, con cui divise il palco in un celebre tour a metà del decennio. E proprio insieme a Dylan, Lynne, Roy Orbison e George Harrison Petty fu protagonista del progetto Traveling Wilburys. Quando parlava di quell’esperienza, Petty evitava di sottolineare il proprio contributo creativo: preferiva piuttosto raccontare come aveva cercato di assorbire l’esperienza e il talento dei suoi colleghi, imparando accordi da Harrison, melodie da Orbison e la spontanea genialità di Dylan. “Bob è anni luce più avanti di tutti”, aveva raccontato, “ma ti puoi sedere accanto a lui e cercare di imparare”.